lezioni americane di italo calvino
È strano fare il commento di un libro senza averlo davanti. Potrebbe essere come parlare di un morto. Occasione in cui si finisce per esprimere solo giudizi positivi come se l’assenza dell’oggetto rendesse le critiche inutili e di cattivo gusto, le privasse di fondamento, come se i dati oggettivi smettessero di essere tali solo perché non è più visibile quello a cui si riferiscono.
Ma potrebbe essere anche come parlare degli assenti. Occasione in cui si finisce per inveire, giudicare e criticare con la massima asprezza magari argomentando dettagliatamente ogni epiteto, come se l’assenza del soggetto cui ci si riferisce legittimasse ogni insulto, rendesse possibile ogni sfogo.
“Lezioni americane” di Italo Calvino non è morto, è solo assente (il volume appartiene alla biblioteca civica di Spilimbergo, il prestito che mi era stato concesso sarebbe scaduto ieri causandomi una multa di 20 centesimi per ogni giorno di ritardo dalla data stabilita per la restituzione) ma io ne parlerò come se si fosse trasferito in un aldilà.
In fondo “Lezioni americane” ha condiviso con me alcuni giorni, mi ha accompagnato in treno, in bagno, a dormire. È entrato a fare parte della mia routine, è stato un compagno discreto e paziente.
Non potrei parlarne male.
L’unico rimpianto è quello di avergli dedicato poco tempo, poca attenzione, di averlo relegato ai tempi morti, di averlo incastrato tra un dovere e l’altro, di averlo trascurato, certa che prima o poi ci sarebbe stato il momento giusto, l’occasione ideale per… non importa poi per cosa, anche solo per stare in silenzio. Ma il tempo è scaduto e l’occasione ideale per… alla fine non si è trovata, forse non la si sarebbe trovata lo stesso, ma credere il contrario aiuta, riduce i sensi di colpa, li elimina.
Così quello che ora posso fare è solo ricordare questo libro, cui ho concesso troppo poco, con un’immagine e una frase.
L’immagine è la leggerezza di un racconto del Decameron di Boccaccio in cui Guido Cavalcanti salta con agilità delle tombe lasciando coloro che l’avevano importunato in un cimitero.
La frase, invece, riguarda l’attenzione e la cura che Calvino dice indispensabile riservare alla lingua, scritta e parlata.
È un pensiero che mi trovo a condividere con sempre più intensità, è ciò cui ho dedicato la mia vita, ciò verso cui ho indirizzato le mie scelte: l’amore per la lingua italiana, la mia madre lingua, l’unico strumento che mi permette di esprimere cose e idee, di renderle presenti a me stessa e agli altri. Non so cosa mi spinga verso le parole piuttosto che verso teoremi matematici so soltanto che io amo le parole. Vivo di parole perché mi proteggono dalla pioggia e dagli urti, mi avvolgono come una calda coperta colorata.
E poi le parole mi affascinano con i loro suoni, le loro immagini, i loro odori, il loro sapore, le loro carezze e i loro schiaffi.
Amo la loro imprevedibilità di donna.
Per tutti questi motivi vorrei poter difendere le parole da coloro che le lasciano in disordine, le buttano sul pavimento, le calpestano, le ammucchiano sulle sedie, le abbinano con pessimo gusto, le dimenticano in fondo ai cassetti, le lasciano all’aperto, vorrei difendere le parole da coloro che le usano con indifferenza, che le indossano come calzini spaiati, camicie stropicciate, pantaloni macchiati, scarpe bucate.
Vorrei che tutta la cura e l’attenzione che viene proposta da televisione e riviste patinate come necessaria nei confronti del vestire alla moda, del mantenersi giovani e in perfetta forma sempre e comunque, fosse riservata anche alle parole. Vorrei che l’attenzione al dettaglio e all’accessorio, al muscolo scolpito e alle pieghe stirate, fosse riversata almeno un po’ sulla lingua italiana, sulle parole che sempre più spesso vengono scelte e usate in modo impreciso, senza badare più al loro significato. Vorrei che il congiuntivo non morisse, e nemmeno lezioni americane.
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