venerdì 15 maggio 2020

ciclo creativo



Photo by Ava Sol on Unsplash



non ho e non voglio avere figli, non ho il ciclo da anni - da quando sono stata operata per la rimozione di un fibroma uterino che aveva dilatato il mio utero come al quarto mese di gravidanza (prima e dopo quell'operazione, mi è stata prescritta una pillola anticoncezionale).
il mio unico modo di essere prolifica è scrivere. ho provato a spiegarlo in questo racconto.


Ciclo creativo

«Ti devo dire un segreto» aveva sussurrato Federica «però mi devi giurare che non lo dici a nessuno».
Eravamo in prima media, Federica era la mia prima amica in assoluto, la prima che fosse mai venuta a casa mia a fare i compiti insieme, la prima che mi ritenesse degna di un segreto.
«Saresti l'unica a saperlo, ma devi giurarmi che non lo dici a nessuno».
Avevo giurato, croce sul cuore. Mi sentivo investita di una grande responsabilità. Mi chiedevo se sarei stata all'altezza.
«Il mese scorso mi sono venute le mie cose» aveva annunciato imbarazzata, tenendo gli occhi bassi sul blocco da disegno.
«Ah» avevo annuito grave, cercando di non far trasparire la delusione. Mi sembrava un segreto stupido, a chi mai sarebbe interessato? A me non importava nulla. Comunque avevo ribadito il mio giuramento.

Avevo abbassato gli slip bianchi per fare pipì, al centro una macchia marroncina, tipo quelle che capitano se non ti pulisci bene dopo aver fatto la cacca. Il colore, la forma, la posizione erano strani, però. Avevo chiamato mia madre in bagno. Mi aveva detto che poteva essere il ciclo, mi aveva aiutata ad attaccare un assorbente. Avrei impiegato anni a capire a che altezza mettere l'assorbente per fare in modo che il sangue stesse nel mezzo.
Ero in seconda media, era passato quasi un anno da quando Federica mi aveva rivelato il suo segreto, adesso ne avevo uno anch'io.

Federica mi aveva lanciato un bigliettino vicino allo zaino. Era la quarta ora, stavamo facendo il compito in classe di inglese. Avevo raccattato la pallina di carta con circospezione, senza farmi beccare dalla prof, mi aspettavo che Federica mi chiedesse la soluzione di qualche esercizio, invece c'era scritto sembra tu abbia i pantaloni macchiati.
Merda.
Sarei dovuta andare in bagno a ricreazione, ma stavamo ripassando e comunque mi ero accorta di non avere assorbenti nello zaino. Avrei dovuto chiederne uno.
La prof non mi avrebbe fatta uscire prima della fine dell'ora e comunque la macchia non sarebbe sparita.
Quando era suonata la campanella, Federica mi aveva fatto l'occhiolino dandomi un paio di pantaloni puliti (quelli che avrebbe usato per la lezione di danza del pomeriggio). In bagno, in una delle tasche, avevo trovato un assorbente.

«Vieni a Berlino con me?» mi aveva chiesto Federica, un pomeriggio di giugno pieno di sole. Poco dopo sarebbero iniziati gli esami di maturità. Eravamo al parco, sedute su un muretto, lei tirava dalla sua sigaretta.
«A far che?»
«Ci trasferiamo là, diventiamo artiste. L'Italia fa schifo, il mondo dell'arte è corrotto come tutto il resto, è tutto nelle mani di vecchi parrucconi che non capiscono un tubo». Aveva girato la testa dall'altra parte, soffiato via il fumo come se potesse mandar via anche la puzza di stantio che la soffocava.
«Io non so nemmeno una parola di tedesco».
«Neanch'io, ma là parlano tutti inglese, mica come qua».
«Come troviamo casa? Come ci manteniamo?»
L'avevo bombardata di domande, di tutti i dubbi che mi venivano in mente per dissuaderla da quel salto nel vuoto senza senso. Ma lei aveva già pensato a tutto, aveva una risposta a tutto: un parente che ci avrebbe dato vitto e alloggio in cambio di qualche ora di lavoro nel suo ristorante, amici di suo fratello che stavano già là e che ci avrebbero messo in contatto con le persone giuste, corsi di tedesco gratuiti da frequentare, se proprio sentivo il bisogno di imparare quella lingua inutile.
«Abbiamo troppo talento, non possiamo farci ammazzare da questo paese morto e sepolto. Tu hai troppo talento».
Aveva sfilato il mio album da disegno dallo zaino e lo aveva sfogliato.
«Guarda, cazzo, sei un genio. Hai un tratto magnifico. Mi vengono le lacrime agli occhi».
Io ero restata zitta. Mi sembrava di non avere idee, di non avere personalità. Scoprivo un artista che mi piaceva e imitavo il suo stile fino a quando mi veniva a noia. Ero brava solo a copiare. In tutti e cinque gli anni di liceo artistico non avevo tirato fuori nemmeno un'idea originale. Non avevo un tratto che mi contraddistinguesse. Pensavo che il massimo cui avrei potuto aspirare sarebbero stati i disegni degli sfondi dei cartoni animati, quei lavori di bassa manovalanza per cui non serve talento. Perché io, di talento, non ne avevo.
«Allora?» aveva insistito «vieni?»
«Ci penso. Adesso vado a casa, ho mal di pancia. Ho il ciclo.»

A Berlino parlavano tutti tedesco. Tranne nella cucina del ristorante in cui io e Federica, a turno, lavavamo pentole. Lì si parlava italiano. La nostra stanza sembrava la cella di un carcere, o di un monastero, c'era spazio a malapena per il letto a castello, un lavandino da cui usciva acqua gelata. Facevamo i turni per il bagno in comune con altre dieci persone: aiuto cuochi e camerieri del ristorante. Dopo due mesi avevamo ancora tutte le nostre cose nelle valige. Non eravamo ancora riuscite a mostrare le nostre opere a nessuno. Nelle poche ore libere che avevamo in comune vagavamo per le strade come ubriache, guardavamo con stupore i graffiti, l'architettura, le facce della gente, i vestiti.
Un giorno ero andata alla mostra di alcuni giovani artisti, avrei voluto venisse anche Federica, per capire come avevano fatto questi, alla nostra età, a farsi esporre. L'ingresso costava otto euro. Lei aveva detto: «Vacci tu, io sono stanca».
Prima di uscire avevo buttato giù una pastiglia di ibuprofene.
Ero rimasta colpita dalle foto, dai disegni e dalle sculture di un tizio che ritraeva il suo corpo, lo scomponeva e ricomponeva con tecniche e materiali diversi. In alcune tele, tra i materiali, era indicato lo sperma. Per alcuni versi mi ricordava Schiele.
Pensavo che avrei potuto fare lo stesso con il mio, di corpo. Reinterpretare quelle opere al femminile. Da quando lavavo pentole al ristorante non avevo più disegnato nulla, copiato nulla, immaginato nulla. La notte sognavo di lavare altre pentole.
Mi ero seduta a terra, avevo tirato fuori il mio album e avevo copiato i dettagli di alcune delle opere: un profilo, una mano, uno sguardo.
«You like it?» mi aveva chiesto l'artista.
In carne e ossa era persino più bello che scomposto. Avevo balbettato: «Yes, it's great, i love it».
E poi ci eravamo messi a chiacchierare in un inglese sgangherato, lento e deformato dalla cadenza delle rispettive lingue madri. Si era fatto buio, la mostra aveva chiuso. Prima di salutarmi mi aveva detto che non dovevo scoraggiarmi, che l'ispirazione per la mia arte sarebbe arrivata, che probabilmente l'idea era già davanti a me.
Aveva detto, posandomi un bacio sulla guancia: «When life gives you lemons, make lemonade».
Quando ero tornata a casa mi ero precipitata in bagno a svuotare la coppetta mestruale, la più capiente in commercio, era piena quasi fino all'orlo.

Da alcuni mesi avevo un ciclo mestruale molto abbondante, troppo abbondante. E doloroso. Sarei dovuta andare da un medico, un ginecologo magari, controllare che fosse tutto a posto. Ma avevo paura, avrei avuto paura ad affrontare la questione in italiano. In un paese straniero era fuori discussione. Per sopportare le lunghe ore in piedi, al lavoro, mi imbottivo di antidolorifico e abbinavo alla coppetta un assorbente notte gigantesco che spesso si rivelava salvifico. C'erano donne che senza ciclo si sentivano strane, donne che con il ciclo si sentivano onnipotenti perché “ehi, noi abbiamo il potere di sanguinare senza morire”. Mi sembravano delle pazze. Io con il ciclo mi sentivo uno straccio, avrei solo voluto stare sotto alle coperte aspettando che finisse.

Poi, un giorno, ho intinto il pennello nel sangue mestruale, e ho iniziato a creare.

2 commenti:

baba ha detto...

L’ho letto d’un fiato. Non so perché ma mi ha fatto pensare a La vita bugiarda degli adulti. Sì, lo so, lo stile non c’entra nulla, però non so come spiegarti, quel rapporto con il proprio corpo, il dolore, la creazione. Quel farsi leggere voracemente.
Che poi, io non sono neppure una lettrice accanita della Ferrante, anzi. Boh.

Vado a scaricarmi Aria e altri coccodrilli.

azzurropillin ha detto...

grazie per essere arrivata in fondo. non amo molto leggere la forma racconto, e il fatto che qualcuno legga e apprezzi i miei, di racconti, mi lascia sempre un po' stupita e molto grata