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non ho e non voglio avere figli, non ho il ciclo da anni - da quando sono stata operata per la rimozione di un fibroma uterino che aveva dilatato il mio utero come al quarto mese di gravidanza (prima e dopo quell'operazione, mi è stata prescritta una pillola anticoncezionale).
il mio unico modo di essere prolifica è scrivere. ho provato a spiegarlo in questo racconto.
Ciclo creativo
«Ti
devo dire un segreto»
aveva sussurrato Federica «però
mi devi giurare che non lo dici a nessuno».
Eravamo in prima media, Federica
era la mia prima amica in assoluto, la prima che fosse mai venuta a
casa mia a fare i compiti insieme, la prima che mi ritenesse degna di
un segreto.
«Saresti
l'unica a saperlo, ma devi giurarmi che non lo dici a nessuno».
Avevo giurato, croce sul cuore.
Mi sentivo investita di una grande responsabilità. Mi chiedevo se
sarei stata all'altezza.
«Il
mese scorso mi sono venute le mie cose»
aveva annunciato imbarazzata, tenendo gli occhi bassi sul blocco da
disegno.
«Ah»
avevo annuito grave, cercando di non far trasparire la delusione. Mi
sembrava un segreto stupido, a chi mai sarebbe interessato? A me non
importava nulla. Comunque avevo ribadito il mio giuramento.
Avevo abbassato gli slip bianchi
per fare pipì, al centro una macchia marroncina, tipo quelle che
capitano se non ti pulisci bene dopo aver fatto la cacca. Il colore,
la forma, la posizione erano strani, però. Avevo chiamato mia madre
in bagno. Mi aveva detto che poteva essere il ciclo, mi aveva aiutata
ad attaccare un assorbente. Avrei impiegato anni a capire a che
altezza mettere l'assorbente per fare in modo che il sangue stesse
nel mezzo.
Ero in seconda media, era passato
quasi un anno da quando Federica mi aveva rivelato il suo segreto,
adesso ne avevo uno anch'io.
Federica mi aveva lanciato un
bigliettino vicino allo zaino. Era la quarta ora, stavamo facendo il
compito in classe di inglese. Avevo raccattato la pallina di carta
con circospezione, senza farmi beccare dalla prof, mi aspettavo che
Federica mi chiedesse la soluzione di qualche esercizio, invece c'era
scritto sembra
tu abbia i pantaloni macchiati.
Merda.
Sarei dovuta andare in bagno a
ricreazione, ma stavamo ripassando e comunque mi ero accorta di non
avere assorbenti nello zaino. Avrei dovuto chiederne uno.
La prof non mi avrebbe fatta
uscire prima della fine dell'ora e comunque la macchia non sarebbe
sparita.
Quando era suonata la campanella,
Federica mi aveva fatto l'occhiolino dandomi un paio di pantaloni
puliti (quelli che avrebbe usato per la lezione di danza del
pomeriggio). In bagno, in una delle tasche, avevo trovato un
assorbente.
«Vieni
a Berlino con me?»
mi aveva chiesto Federica, un pomeriggio di giugno pieno di sole.
Poco dopo sarebbero iniziati gli esami di maturità. Eravamo al
parco, sedute su un muretto, lei tirava dalla sua sigaretta.
«A
far che?»
«Ci
trasferiamo là, diventiamo artiste. L'Italia fa schifo, il mondo
dell'arte è corrotto come tutto il resto, è tutto nelle mani di
vecchi parrucconi che non capiscono un tubo».
Aveva girato la testa dall'altra parte, soffiato via il fumo come se
potesse mandar via anche la puzza di stantio che la soffocava.
«Io
non so nemmeno una parola di tedesco».
«Neanch'io,
ma là parlano tutti inglese, mica come qua».
«Come
troviamo casa? Come ci manteniamo?»
L'avevo bombardata di domande, di
tutti i dubbi che mi venivano in mente per dissuaderla da quel salto
nel vuoto senza senso. Ma lei aveva già pensato a tutto, aveva una
risposta a tutto: un parente che ci avrebbe dato vitto e alloggio in
cambio di qualche ora di lavoro nel suo ristorante, amici di suo
fratello che stavano già là e che ci avrebbero messo in contatto
con le persone giuste, corsi di tedesco gratuiti da frequentare, se
proprio sentivo il bisogno di imparare quella lingua inutile.
«Abbiamo
troppo talento, non possiamo farci ammazzare da questo paese morto e
sepolto. Tu hai troppo talento».
Aveva sfilato il mio album da
disegno dallo zaino e lo aveva sfogliato.
«Guarda,
cazzo, sei un genio. Hai un tratto magnifico. Mi vengono le lacrime
agli occhi».
Io ero restata zitta. Mi sembrava
di non avere idee, di non avere personalità. Scoprivo un artista che
mi piaceva e imitavo il suo stile fino a quando mi veniva a noia. Ero
brava solo a copiare. In tutti e cinque gli anni di liceo artistico
non avevo tirato fuori nemmeno un'idea originale. Non avevo un tratto
che mi contraddistinguesse. Pensavo che il massimo cui avrei potuto
aspirare sarebbero stati i disegni degli sfondi dei cartoni animati,
quei lavori di bassa manovalanza per cui non serve talento. Perché
io, di talento, non ne avevo.
«Allora?»
aveva insistito «vieni?»
«Ci
penso. Adesso vado a casa, ho mal di pancia. Ho il ciclo.»
A Berlino parlavano tutti
tedesco. Tranne nella cucina del ristorante in cui io e Federica, a
turno, lavavamo pentole. Lì si parlava italiano. La nostra stanza
sembrava la cella di un carcere, o di un monastero, c'era spazio a
malapena per il letto a castello, un lavandino da cui usciva acqua
gelata. Facevamo i turni per il bagno in comune con altre dieci
persone: aiuto cuochi e camerieri del ristorante. Dopo due mesi
avevamo ancora tutte le nostre cose nelle valige. Non eravamo ancora
riuscite a mostrare le nostre opere a nessuno. Nelle poche ore libere
che avevamo in comune vagavamo per le strade come ubriache,
guardavamo con stupore i graffiti, l'architettura, le facce della
gente, i vestiti.
Un giorno ero andata alla mostra
di alcuni giovani artisti, avrei voluto venisse anche Federica, per
capire come avevano fatto questi, alla nostra età, a farsi esporre.
L'ingresso costava otto euro. Lei aveva detto: «Vacci
tu, io sono stanca».
Prima di uscire avevo buttato giù
una pastiglia di ibuprofene.
Ero rimasta colpita dalle foto,
dai disegni e dalle sculture di un tizio che ritraeva il suo corpo,
lo scomponeva e ricomponeva con tecniche e materiali diversi. In
alcune tele, tra i materiali, era indicato lo sperma. Per alcuni
versi mi ricordava Schiele.
Pensavo che avrei potuto fare lo
stesso con il mio, di corpo. Reinterpretare quelle opere al
femminile. Da quando lavavo pentole al ristorante non avevo più
disegnato nulla, copiato nulla, immaginato nulla. La notte sognavo di
lavare altre pentole.
Mi ero seduta a terra, avevo
tirato fuori il mio album e avevo copiato i dettagli di alcune delle
opere: un profilo, una mano, uno sguardo.
«You
like it?»
mi aveva chiesto l'artista.
In carne e ossa era persino più
bello che scomposto. Avevo balbettato: «Yes,
it's great, i love it».
E poi ci eravamo messi a
chiacchierare in un inglese sgangherato, lento e deformato dalla
cadenza delle rispettive lingue madri. Si era fatto buio, la mostra
aveva chiuso. Prima di salutarmi mi aveva detto che non dovevo
scoraggiarmi, che l'ispirazione per la mia arte sarebbe arrivata, che
probabilmente l'idea era già davanti a me.
Aveva detto, posandomi un bacio
sulla guancia: «When
life gives you lemons, make lemonade».
Quando ero tornata a casa mi ero
precipitata in bagno a svuotare la coppetta mestruale, la più
capiente in commercio, era piena quasi fino all'orlo.
Da alcuni mesi avevo un ciclo
mestruale molto abbondante, troppo abbondante. E doloroso. Sarei
dovuta andare da un medico, un ginecologo magari, controllare che
fosse tutto a posto. Ma avevo paura, avrei avuto paura ad affrontare
la questione in italiano. In un paese straniero era fuori
discussione. Per sopportare le lunghe ore in piedi, al lavoro, mi
imbottivo di antidolorifico e abbinavo alla coppetta un assorbente
notte gigantesco che spesso si rivelava salvifico. C'erano donne che
senza ciclo si sentivano strane, donne che con il ciclo si sentivano
onnipotenti perché “ehi, noi abbiamo il potere di sanguinare senza
morire”. Mi sembravano delle pazze. Io con il ciclo mi sentivo uno
straccio, avrei solo voluto stare sotto alle coperte aspettando che
finisse.
Poi, un giorno, ho intinto il
pennello nel sangue mestruale, e ho iniziato a creare.