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lunedì 1 gennaio 2024

Mio padre è una ghiandaia

Per i suoi 18 anni Carla si era fatta tatuare una ghiandaia sul braccio. 

Il primo a dirle che non era una buona idea era stato il tatuatore stesso: “Perché vuoi un uccello brutto, al contrario, sul braccio?”

Lei avrebbe voluto rispondere che intanto non era un uccello qualunque ma una ghiandaia, che non era brutto ma stupendo, che non era al contrario perché lei lo avrebbe visto drittissimo, e che non era sul braccio ma sull'avambraccio. E poi il cliente non ha sempre ragione? Se ti pago per farmi soffrire, fai quello che ti chiedo e taci.

Ma non aveva detto niente.

“Un tatuaggio è permanente, non stiamo giocando coi trasferelli” aveva continuato lui, guardandola con sufficienza.

“Non ho cinque anni” aveva risposto Carla, piccata.

Alla fine, anche se lo studio era una stanza buia e umida in un sottoscala, anche se il tatuatore puzzava di sudore, anche se non le aveva dato la ricevuta ed era stato fastidioso quanto l’ago che le aveva marchiato la pelle, aveva fatto un buon lavoro a un buon prezzo. 

Carla aveva ottenuto la sua ghiandaia, appollaiata su un ramo, con le piccole piume azzurre laterali belle lucenti. Le avrebbe ricordato che ci sono due modi di stare al mondo: uno buono, e uno cattivo. Lei sapeva quale avrebbe scelto, sempre. 


Il libro ha una copertina di plastica verde. Si intitola Uccelli d’Europa, ha 112 illustrazioni a colori. Carla, seduta in cortile, lo sfoglia avanti e indietro, cerca di capire come si chiamino gli uccelli che vede. Ma le sembrano tutti uguali.

Quando suo padre le passa accanto per addentrarsi nel bosco, Carla dice: “Posso venire anch’io? Mi spieghi gli uccelli?”

Il padre le prende la mano libera, quella in cui non tiene il libro. “Andiamo” dice.

Camminano in silenzio, tra l’erba alta e gli sterpi. I rovi le si impigliano nella maglia, le graffiano gli stinchi.

Quando si fermano, in mezzo al bosco, suo padre le lascia la mano. Toglie il fucile dalla spalla. Carla non si era accorta del fucile.

Lui glielo porge: “Tieni” dice.

Le strappa il libro di mano e lo butta per terra, la aiuta a imbracciare l’arma, a mettere l’occhio sul mirino.

“Dai, spara” la incoraggia indicandogli un uccello appollaiato su un ramo poco distante.

Carla si gira verso suo padre e gli punta la canna del fucile addosso.


“Ma che cazzo di tatuaggio ti sei fatta?” fu la prima frase che le rivolse fuori da un locale un ragazzo che le piaceva un po’. Si chiamava Sam. Erano stati insieme per alcuni mesi. Dopo il sesso lui le accarezzava l’avambraccio e le diceva “tu sei matta, questo tatuaggio è fuori di testa”. A lei sembrava divertente. Ma solo perché era innamorata. Solo quando lui la mollò lei capì che la loro fine era già contenuta in quella prima frase “Ma che cazzo di tatuaggio ti sei fatta?”


Si era fidanzata con Tommaso perché fu l’unico a dirle: “La ghiandaia è un uccello magnifico. Cosa significa per te?”

“Mi ricorda mio padre” aveva detto lei malinconica.

“Oh, mi dispiace” aveva replicato lui.

Non ne avevano più parlato. Anche se erano andati a convivere, anche se si erano sposati, anche se stavano insieme da diciannove anni. 

La famiglia di Tommaso aveva adottato Carla. Sapevano che era orfana, aveva solo Nina, una sorella minore di dieci anni che abitava in un posto vago e lontano difficile da raggiungere.


L'avambraccio fu percorso da una fitta. 

Carla accese la luce sul comodino con uno scatto.

“Che succede” le chiese Tommaso?

Lei guardò il tatuaggio.

“Mi fa male.”

“La pelle sembra arrossata” confermò Tommaso accarezzandole il polso. Carla si chiese se fosse possibile che le stesse facendo infezione dopo tutti quegli anni. Doveva capirlo che quell'imbecille non era affidabile: due mesi dopo che le aveva tatuato la ghiandaia gli avevano chiuso lo studio per il mancato rispetto delle norme igienico sanitarie. Adesso che ci pensava, forse non indossava nemmeno i guanti.

Carla stava ancora chiedendosi se fosse meglio mettere una pomata, del ghiaccio oppure nulla quando il cellulare squillò. 

Era Nina. Strano, non la chiamava mai, tantomeno la sera così tardi. 

“Papà, sta morendo.”

Silenzio.

“Dovresti venire”.

“A fare cosa?” chiede curiosa Carla.

“A dirgli addio” aveva concluso Nina.



“Che succede?” le chiese Tommaso dopo che ebbe riattaccato. 

“Mio padre. È ricoverato.”

“Avevo capito che era morto anni fa” rispose Tommaso confuso. 

“Infatti è così.”

“Mi avevi detto che ti eri fatta tatuare la ghiandaia perché ti ricordava tuo padre.”

“Infatti è così” aveva tagliato corto Carla, spegnendo la luce. 

Cercò di riaddormentarsi nonostante il fastidio al braccio. Alla fine andò in bagno, aprì l’armadietto delle medicine e prese un antidolorifico. Non fece effetto. Tommaso respirava tranquillo accanto a lei, provò a imitarlo.

Nel cuore della notte qualcosa le trafisse l’avambraccio. Si svegliò di soprassalto, urlando per il dolore. Accese a tentoni la luce.

La ghiandaia stava spiegando le ali. Carla allungò un dito tremante per accarezzarne le piume azzurre. Le ricordava più morbide. Il becco, per farsi strada verso il fuori, scavò la pelle. Infine l’uccello volò via.


Carla sta giocando a saltare nei cumuli di fieno quando sente il cigolio della porta del capanno che si apre. 

Vede suo padre entrare e dopo pochi istanti lo vede uscire, col fucile da caccia sulla spalla.

Sa che non deve, sa che suo padre la punirà quando la scoprirà, ma ugualmente lo segue, a distanza, senza fare rumore, nascondendosi dietro gli alberi, acquattandosi nei cespugli.

È stata altre volte nel bosco, le sembra di conoscerlo abbastanza bene. Suo padre procede, si abbassa sotto ai rami, scavalca i rovi, punta i piedi di traverso nella discesa. A un tratto si ferma, prende il fucile, punta la canna. Carla resta immobile, a distanza, trattiene il fiato. Non sa cosa ci sia nel mirino, ma sa che qualsiasi cosa suo padre metta sotto tiro non ha scampo.

Sente lo sparo, non solo con le orecchie, ma anche nello stomaco che vibra.

Un uccello cade dal ramo. Carla sente il tonfo sordo del corpo sul terreno, o forse lo immagina soltanto. O forse è l’eco del colpo che si disperde nell’aria.

Suo padre passa oltre la vittima, la ignora. 

Carla aspetta che lui si allontani e si precipita sull’uccello, si inginocchia lì accanto. Non ha mai imparato a distinguere gli uccelli, continuano a sembrarle tutti un po’ uguali, ma quella a terra è una ghiandaia europea, la riconosce perché c’è nel libro degli uccelli, a pagina sessantacinque, ha le piume azzurre sulle ali.

È ferita, ma non è morta, la vede muoversi. La accarezza con un dito. Ha paura. Paura che la ghiandaia la becchi. Paura che le muoia tra le mani.

Paura che suo padre torni indietro e la scopra e la picchi. La prende tra le dita tremanti, la porta a casa, la nasconde in una scatola che tiene in camera sua sotto la scrivania e le dà dei semi, delle foglie di lattuga, dei pezzi di mela, dei vermi che tira fuori dalla terra dopo averla smossa con una piccola zappa. È di questo che si nutrono le ghiandaie, c’è scritto nel libro con la copertina verde.

Dopo alcuni giorni, quando la ghiandaia è di nuovo pronta a volare, Carla la porta nel bosco e la lascia su un ramo basso. Nessuna delle due se ne vuole andare. Tranne una lacrima che sfugge dalle palpebre di lei.

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